I luoghi comuni che vengono spesso indirizzati nei confronti di Iglesias, come ugualmente le dimenticanze, volute o no, per quanto concerne usanze, abiti tradizionali e, guarda caso, anche certe evidenze enogastronomiche, ci lasciano perplessi e parecchio amareggiati.
In tal frangente, molte parti della Sardegna ci sanno fare, senza scrupolo alcuno. Iglesias è quasi sempre uguale a miniera, e qui esistono i suoi confini. E a proposito, venerdì 22 c. m. sulla pagina 25 del quotidiano l’Unione Sarda, compare da Assemini un articolo “un tour fuori dai confini nazionali per far conoscere la storia del piatto tipico del paese asseminese. La ricerca delle origini, quale viaggio antropologico, pubblicizzata nel volume di Veronica Matta, sarà presentata a Minorca Isole Baleari il 16 aprile, dopo un iter attraverso Cuglieri e Oschiri”. E Iglesias? No comment.
In due precedenti servizi, mentre nel primo (in occasione del Festival di Sa Panada), di vari anni fa, sempre da Assemini si diceva chiaramente che tale piatto tipico proviene da Iglesias e dal suo territorio storico, il Sulcis, ora la suddetta Città, come nel recente articolo giornalistico, viene totalmente dimenticata.
L’autrice del libro è a conoscenza o no che “Sa Panada” è anche tradizione culinaria di Villa Ecclesiae?
È sufficiente portare alla memoria che nel nostro territorio comunale esistono ben due toponimi che ci richiamano a una nostra prelibatezza tradizionale Sa Panada.
Ebbene, abbiamo: “Monti de Sa Panada” e “Nuraxi Sa Panada”, a nord della città.
Ad Iglesias, città di forte caratterizzazione spagnola, dato che la Spagna ha dominato per ben 450 anni, non solo era costume preparare “Su mustattseddu de tamatiga” ma persino “Sa Panada”, sua parente di primo grado una volta tolto il pane dal forno.
Profumi e delizie di altri tempi, di altre mani di madri e nonne sapienti. Una delle ultime massaie, bravissime nel preparare “Sa Panada” è stata la Signora Maria, amica della signora Bice Vargiu, e recentemente scomparsa.
Il nostro piatto tipico “Sa Panada”, non ce ne voglia la studiosa Veronica Matta, si preparava e si prepara in alcuni modi:
1) niente anguilla e molluschi;
2) di grano duro e farina, per sostenere il ripieno veniva lavorata con l’olio d’oliva nostrano o con lo strutto, sempre sardo, cioè “spongiada”.
Il contenitore di pasta poteva essere chiuso, intrecciando la pasta o lasciato un tantino scoperto, secondo il tipo di ripieno.
Per la preparazione di “Sa Panada” si potevano scegliere diversi ingredienti: carne d’agnello o di capretto con “sa piarra” o con i piselli, precedentemente passati al fuoco, funghi oppure con patate e teneri carciofi aromatizzati con erbe medicinali: timo, origano, basilico, salvia, ecc.
Una volta nel forno a 170 o 180 gradi, per dar maggior lucentezza a “Sa Panada”, si lisciava la pasta con acqua calda. Si rimetteva subito al forno per un’ora e più.
Nel muovere il contenitore di pasta, se il misto di ingredienti si muoveva, il ripieno era pronto.
Sa Panada era preparata piccola, media o grande, a seconda del numero dei commensali o dei familiari. Era considerata un dono prelibato per un omaggio a persone di un certo rango, a parenti o ad amici carissimi. Ora, dopo un periodo di “magra”, sa panada risorge anche per i turisti.
Come tempo addietro, si dovrebbe lavorare la pasta sulla tavola “po fai su pani” o su un grande tagliere, appena un poco cosparsi di olio d’oliva o di strutto tiepido.