Cagliari la grassa_di Paolo Fadda

C’è qualcuno che sostiene che i cittadini di Cagliari si potrebbero dividere in “quelli che si ricordano del mercato del Largo” e in quelli – assai più numerosi – che sono venuti dopo, per via dell’anagrafe o per via dell’immigrazione. Proprio a significare che di quel grande emporio della golosità se ne è perduto il ricordo, anche se qualche vecchia foto in bianco e nero, scattata dal premiato laboratorio fotografico Ferri o dai fratelli Pes, ne riesce a perpetuare la memoria negli album delle vecchie collezioni di cartoline.  

Ora, va confessato che chi scrive può essere ricompreso fra quelli “che si ricordano” e che – tra l’altro – ha ancora ben impresso davanti agli occhi il giorno di quell’improvvida demolizione avvenuta nel 1957, allorquando quell’imponente “partenone” veniva giù come un castello di carte. Fra i commenti meravigliati ed anche perplessi dei tanti curiosi, perché se ne andava via – inghiottito da una forte voglia di progresso – una parte importante della storia cittadina. Va detto, per opportuna conoscenza, che quelli erano ancora dei tempi nei quali pochi, e ben fuori dell’opinione generale, potevano dubitare o negare che quella demolizione fosse necessaria perché diretta a rendere più bella la città, arricchendola con due edifici destinati ad ospitare due “ricchi” istituti bancari. Così dal tempio de is caboniscus, de is giarrettus  e de is palajas, venerati come delle divinità nella mensa dei buongustai cagliaritani, s’era passati al tempio dove s’adorava un altro dio, peraltro molto più suadente, ma per certi versi indigesto, su dinai appunto.     

Si sta qui parlando – per far capire a quelli “venuti dopo” – dell’importante mercato dei commestibili edificato negli ultimi decenni dell’Ottocento nel Largo Carlo Felice e poi sostituito per un’improvvida decisione municipale con i palazzi di due importanti banche nazionali.

Ora, quell’imponente mercato coperto, grazie al suo celebre colonnato dorico in grigia pietra di Sardegna, aveva conquistato il prestigio e «l’imponenza architettonica di un vero tempio classico». Va detto che in breve tempo era divenuto (annoterà un illustre visitatore, l’inglese David H. Lawrence) il luogo più celebrato della città, ove si poteva trovare ogni bendiddio mangereccio ed era tanto accattivante (per gli occhi e la gola) da far scrivere a quello scrittore inglese di non aver mai conosciuto «un così luccicante mondo di cibi d’ogni forma e colore, in uno splendore simile a quello visto sotto il tetto del mercato di Cagliari, così puro e fastoso».

Ora, per ricordare un po’ la storia di quel grande mercato civico che per circa trequarti di secolo ha rappresentato una straordinaria “gloria” cittadina, andrebbe ricordato che venne costruito nel 1884 su quello che era l’antico convento di Sant’Agostino. Per progettarlo era stato bandito nel 1873 dal Comune un apposito bando di concorso «ma, purtroppo, tra i progetti presentati nessuno venne considerato idoneo. Si faceva interessante un progetto del capo dell’ufficio tecnico del comune, l’ingegner Enrico Melis, il quale fu invitato ad apportare le necessarie modifiche. Ma qualche anno dopo un altro progetto veniva proposto dall’avvocato Todde-Deplano, che riproponeva una nuova zona. Anche questo progetto fu però respinto e il Comune tornò a quello del Melis che, dopo numerose modifiche, fu realizzato in due corpi separati di edifici [de susu, con 180 box per frutta e verdura, de basciu con 56 box per carne e pesce]» (così hanno scritto Giancarlo Sorgia e Giovanni Todde). 

Da allora, quel mercato del Largo sarebbe divenuto un luogo privilegiato per gli incontri cittadini. Dove s’andava per far la spesa ma anche per far quattro chiacchiere, scambiarsi pettegolezzi e saluti e far nuove conoscenze o conquiste. A tal proposito, un periodico di quel tempo (“Vita Sarda”) scriverà che, attorno a quei banchi e fra il vociare di tanta gente,«vi s’incrociano parole salaci e motti di spirito fra quanti l’hanno eletto a sede dei loro quotidiani appuntamenti, aggiungendo al piacere della vista per tante appetitose leccornie anche quello per i seni ricolmi e gli occhietti ladri delle tante belle e giovani servotte che vi s’aggirano petulanti e pibirure».    

In effetti, quel grande “tempio dell’annona” era stato uno dei primi grandi “affaire” edilizi della città borghese, tanto che se ne erano interessati in parecchi, prima ancora che lo avesse progettato e realizzato l’ingegner Melis. I primi disegni erano stati addirittura del “grande” Gaetano Cima che ne aveva suggerito la localizzazione ottimale proprio nell’area del vecchio convento di Sant’Agostino, anche per rimanere in linea con la tradizione che aveva fatto di quegli spiazzi al di là della porta di Stampace, il luogo ideale per i commerci alimentari dei cagliaritani. 

Si trattava – quello spiazzo polveroso ed informe era chiamato sa prazza ‘e su trigu, dato che vi si svolgeva nella stagione loro il mercato delle granaglie. Più che un vero mercato si trattava di una sorta di grande accampamento all’aperto, dove l’attrezzatura si riduceva a misere paratoie di canne ed a elementari trespoli di legno ove si esponevano cestini e corbule d’ogni forma e grandezza, il tutto nella più completa latitanza d’ogni precauzione igienica.

L’amministrazione civica del tempo era giunta quindi nella determinazione di dover dotare la città d’un luogo ove confluissero tutte le derrate di cui aveva bisogno il “ventre” dei sempre più numerosi cagliaritani, non foss’altro per assicurare dei confort di pulizia e d’igiene. 

D’altra parte era giunta notizia, anche in quest’estrema periferia d’Europa qual’era Cagliari in quella prima metà Ottocento, della modernità dei nuovi mercati parigini, le Halles, che erano divenuti, con il bendiddio alimentare che vi si poteva acquistare e con i servizi moderni di cui erano dotate, una vera e propria attrazione mondiale, quasi come la torre Eiffel. 

Ora, proprio per dare alla memoria di “chi allora c’era” la giusta importanza, andrebbe aggiunto che, anche per la sua demolizione a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, tutto non sarebbe filato via liscio, in quanto sarebbero sorte roventi polemiche e ripetute incertezze. Nell’aula consiliare comunale di allora (si sta parlando della metà degli anni 50 del Novecento) vennero evocate le mene di oscuri di “poteri forti” più o meno underground, oltre a paventare il pericolo rappresentato «da avide mani pronte a carpire i tesori cittadini»… Lo stesso sindaco del tempo, Pietro Leo, ed il suo vice, Filippo Asquer, furono a più riprese fatti cenno ad un tiro incrociato, non solo dalle opposizioni ma anche dalla stessa maggioranza e dalla vérve accusatoria di un accanito Di Pietro del tempo. 

Purtroppo – varrebbe oggi ricordarlo per la storia – non era stata tanto la conservazione di quel monumento eretto …a gloria della gastronomia cittadina che aveva motivato quegli scontri, e neppure si sollevarono voci in difesa della storicità di quell’edificio (certamente ragguardevole per il suo pregio architettonico), quanto l’acido di quelle presunte collusioni tra qualche amministratore civico ed un’importante impresa immobiliare continentale. E ciò nel rispetto di quel culto del gossip e dell’invidia che va parte, da sempre, della “costituzione materiale” della città, prima ancora del suo culto per la difesa dei “segni” del passato.

In verità, proprio per tornare al tema centrale di questo scritto, andrebbe detto che il mercato, o, meglio, i mercati sono stati da sempre un vanto cittadino, tant’è che l’appeal storico di quello del Largo Carlo Felice, non sarebbe finito con la sua pur improvvida demolizione ma avrebbe trovato un suo continuum nel nuovo complesso di San Benedetto, costruito, purtroppo, con una più marcata spartanità e modestia architettonica. Ma anch’esso capace di raccogliere e di esaltare eguali se non maggiori capacità attrazionali. Avendo accolto nei suoi spazi i tradizionali trionfi di pesci d’ogni qualità, colore e misura e le ricche esposizioni di porcettus ed  angioneddus, di cestini di frutta e verdure in technicolor, tutto in nome di quel richiamo alla golosità che è un po’ il brand storico della spesa alimentare dei cagliaritani.

Andrebbe ricordato ancora come di quest’emporio gastronomico proprio in questi giorni si sono celebrati i cinquant’anni, un età di mezzo che comincia ad indicare, anche per gli edifici, le prime rughe ed i primi acciacchi, anche se temperati da un intelligente e provvido restyling che ne ha rinfrescato spazi e servizi. Eppure, se la sua fisicità pur continua a mostrare  qualche crepa, i contenuti di quell’emporio di San Benedetto sono sempre rimasti d’alta qualità e di grande attrazione.

A conferma, per meglio intendersi, che a Cagliari i mercati alimentari sono da sempre un po’ un’istituzione cittadina, un marchio d’identità, un qualcosa che si va a coniugare con la “cagliaritanità”, e che sono assunti come cosa propria, come simbolo patrio, e questo sia dai cittadini d’ogni età e condizione, siano ricchi o poveri, giovani o vecchi, uomini o donne. 

La cittadinanza, infatti, ha sempre messo molta della sua urbanità nel frequentare i “suoi” mercati, quasi fossero una parte di se stessa, un luogo quindi da conoscere e da far conoscere, da frequentare e da far ammirare. Dei luoghi – si è letto da qualche parte – in cui la stessa struttura fisica e civile di Cagliari, con tutti i suoi fasti e fastigi, esprime – e vive – il suo momento migliore.

Ed infatti ancora oggi parlar di mercati a Cagliari è un qualcosa che riempie i suoi cittadini d’orgoglio, tanto che sono in molti a rimirarsi le parole che l’inglese David H. Lawrence dedicò loro, scrivendo, in quel suo bel libro “Sea and Sardinia”, di non aver mai conosciuto «un così luccicante mondo di cibi d’ogni forma e colore,  in uno splendore simile a quello visto sotto il tetto di quel mercato di Cagliari così fastoso». Verrebbe quasi da consigliare alla municipalità attuale di collocare una bella lapide con queste parole in uno degli ingressi di quel mercato, in modo da rievocare e ricordare i fasti gastronomici di questa tradizione cittadina. 

Si è infatti dell’idea che anche Cagliari meriti, al pari di Bologna, d’essere detta “la grassa”, cioè una città che ha fatto del cibo, del buon cibo, uno dei suoi atouts maggiori e migliori. Ed in più della capitale emiliana ha la capacità di offrire, accanto ai frutti impareggiabili d’una fertile agricoltura mediterranea, anche i prodotti straordinari d’un mare pescosissimo d’ogni sorta di pescato.

Scrivere quindi dei mercati cagliaritani è un po’ come celebrare le glorie cittadine, dato che anche le guide più apprezzate non mancano di consigliare a visitatori e turisti di fare una capatina verso San Benedetto dove si può visitare ed ammirare uno dei più fastosi e intriganti mercati alimentari del Mediterraneo.

Perché anche questa è – per chi non lo sapesse – una delle grandi attrattive della città. 

©Sardegnatavola

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