Sardegna, terra di profumi e sapori_di Ermenegildo Lallai

La Sardegna è immersa in una grande quantità di profumi che , in tutte le stagioni, deliziano piacevolmente nelle città, nei paesi e nelle campagne l’olfatto delle persone.

Significativo è il fatto che il gradevole profumo di mentolo che accoglie i viaggiatori sulle navi che entrano nella baia di Olbia è definito “odore di Sardegna”. Percorrendo il territorio isolano è possibile recepire una autentica esplosione di profumi emanati dai finocchietti selvatici, dai gelsomini, dai ciclamini, della menta, dal mirto, dal lentischio, dai fiori d’arancia e da tutta una miriade di erbe aromatiche e piante in fiore i quali aggiunti ai colori delle piante, dei fiori, delle stesse erbe, agli immensi prati in primavera, vivacizzati da papaveri e margherite gialle, volgarmente dette “cariganzu”, danno una immagine splendida e indimenticabile della nostra Isola.

Ma ai profumi naturali si possono aggiungere quelli, altrettanto piacevoli, dei cibi in elaborazione provenienti dalle case, percorrendo intorno alle 12 nelle vie dei paesi e nella stessa Cagliari, soprattutto quelle dei quartieri storici della Marina, di Stampace , di Villanova e di Sant’Avendrace è ancora possibile percepire, anche se in forma minore rispetto al passato, allettanti aromi della tradizionale cucina sarda e cagliaritana che possono essere considerati come una sorta di test sui gusti e le abitudini culinarie dei sardi. In certe strade dei quartieri cagliaritani era possibile vedere, sopratutto negli anni cinquanta e sessanta, barbecue quasi sempre improvvisati, spesso ricavati da scaldabagni o da vecchie lamiere sapientemente adattati, dove mani esperte cucinavano all’aperto vari tipi di pesce nonché maialetti, bistecche di cavallo, manzo e maiale e salsicce.

Tra i pesci un ruolo dominante avevano e tuttora hanno le sardine che, a detta degli intenditori, sarebbero il non plus ultra in termini di gusto. Un pescatore, titolare di un banco nel mai dimenticato mercato del Largo Carlo Felice che proponeva nella sua rivendita aragoste, astici, orate, muggini, pagelli, dentici, cer nie e ricciolo confessava di cucinare e mangiare solo esclusivamente sardine che, a suo parere, avevano un gusto piacevole che ricordava il profumo del mare.

In casa sua, diceva, sopratutto la domenica, non potevano mancare e aggiungeva, con una certa ironia, che lasciava i pesci “nobili” ai clienti sicuramente non dotati di palati così sofisticati da sapere apprezzare tali delizie.

I profumi dagli arrosti nei barbecue si diffondevano piacevolmente nelle strade creando un aria di festa accompagnati dalla radio ad alto volume che consentiva agli addetti alla cottura all’esterno delle abitazioni di musica tradizionale e rappresentava, inoltre, un coraggioso impegno per superare la incredibile e molto provinciale tendenza, propria degli anni cinquanta e sessanta del secolo trascorso, di oscurare e fare dimenticare parti importanti dell’identità della Sardegna come la lingua, la cultura, la storia, la musica e le tradizioni popolari.

Era al riguardo molto diffuso il maldestro tentativo, diventato oggetto di una infinità di barzellette, di tanti di cercare di nascondere la caratteristica cadenza del parlare regionale con improbabili e spesso comici modi di rimarcare le parole.

Nelle strade del quartiere di Villanova ci si dedicava prevalentemente alla cottura delle carni e in particolare al maialetto, all’agnello, a “sa cordula”, a “sa trattalia”, alle bistecche di cavallo, manzo, maiale e asino e alla salsiccia. I Cagliaritani attribuivano tali preferenze al fatto che buona parte degli abitanti del quartiere provenivano dai centri dell’interno dell’isola dove il pesce non era molto conosciuto o apprezzato.

Ai profumi sopracitati devono essere aggiunti quelli altrettanto gradevoli, provenienti dai sempre presenti barbecue in occasione delle feste nelle quali vengono arrostite da mani particolarmente esperte anguille, muggini, maialetti e “cordulas”. Agli aromi che deliziano i palati sono spesso abbinate da parte dei tanti che si piccano di saper cucinare, interminabili e mai risolutive discussioni sui metodi per ottenere cibi sempre più gradevoli.

Ognuno si dichiara depositario di verità non emendabili da altre ipotesi o precisazioni.

Per quanto riguarda la “burrida”, ritenuta una esclusiva specialità delle casalinghe del quartiere di Sant’Avendrace – opinione contestata dalle cuoche delle altre zone di Cagliari – viene considerata una autentica profanazione della “vera ricetta” l’utilizzo delle mandorle al posto delle noci e la possibilità di servirla in tavola calda, appena cotta, e non dopo una decantazione di almeno 24 ore.

Altra eterna discussione riguarda la preparazione del pesce a “scabecciu”, la disputa è concentrata sul tipo di pesce da utilizzare, sul dosaggio degli aromi, dell’aceto in particolare, e sulla quantità e sul tipo di olio da usare nella frittura.

Ancora grandi discussioni riguardano la cottura del maialetto, la quasi unanime teoria di fare asciugare la carne lentamente, con la brace all’inizio un po’ lontana dallo spiedo e lentamente,successivamente, avvicinata alla carne, che richiede 3 ore circa, è contestata da una minoranza molto esigua che dichiara di arrivare alla piena e soddisfacente cottura de “su porceddu” dopo un ora e mezza utilizzando, però, la brace molto forte sin dall’inizio.

Non mancano sull’argomento varianti originali come quella sostenuta da un tale che si dichiara grande esperto di cottura sulla brace e che è solito iniettare nella carne del maialetto liquore di mirto che garantisce, a suo parere, un aroma migliore e più gradevole e rispetto a quello ottenuto dai tradizionali rametti e foglie di mirto.

A Cagliari nei primi decenni del Novecento operavano molte trattorie popolari nelle quali era possibile gustare i piatti della tradizione sarda. I locali presenti nella Via Angioi, nella Via Sassari e nel Viale Trieste vengono sono ancora oggi ricordati per la bontà dei cibi proposti, tutti genuini e a non alto prezzo, dove erano soliti pranzare i carrettieri che stazionavano in zona in attesa di clienti e le persone che arrivavano a Cagliari dai centri dell’interno dell’isola per sbrigare pratiche e fare acquisti.

I menù erano abbastanza semplici si andava dalle fave con lardo (vera e autentica specialità) al brodo con il lesso, alle minestre di legumi, di formaggi, di verdure varie ( ancora oggi un ristorante della zona di Giorgino è indicato da tutti come il locale di “minestrone”) e naturalmente i pesci e la carne cucinati in tantissimi modi. La cucina cagliaritana recepisce anche piatti tipici di altre parti non solo dell’isola ma anche della penisola probabilmente perché quella parte della popolazione di origini diverse ha mantenuto le proprie tradizioni. Per tale motivo sopratutto nelle famiglie i menù sono estremamente vari, si utilizzano i “culurgiones” ogliastrini, i ravioli con ricotta, verdure o formaggio, le “sebadas” originarie della parte centrale dell’isola, la “zuppa gallurese”, la “pecora in cappotto”e la bottarga dell’oristanese.

Particolari abitudini mantengono, come detto, le famiglie discendenti da antenati liguri che nell’ottocento si trasferirono in Sardegna per avviare attività commerciali.

In queste case i menù prevedono un largo uso di verdure con le quali vengono preparate minestre (a base di indivia, zucchine, piselli, patate, carote), sformati ( la torta Pasqualina a base di bietole e spinaci), contorni (come la caponata, composta da pane rammollito in acqua e aceto, lattuga, uova sode, tonno, capperi e acciughe che niente a che fare con quella siciliana, altrettanto buona, basata, però, prevalentemente sulle melanzane) e ancora una miriade di ricette per cucinare il pesce.

Tra queste ultime meritano di essere ricordate quelle relative al tonno lesso con contorno di cipolle crude e la zuppa con vari tipi di pesci nelle quali non poteva mancare il cappone e, secondo la teoria di molti, addirittura un pezzetto si scoglio… che garantirebbe un aggiuntivo sapore straordinario.

In molte case vengono ancora oggi preparati i tortelli di zucchine, specie di grandi ravioli che vengono fritti.

I Sardi, come capita quasi dovunque nel mondo, gradiscono molto lo stare al tavolo con amici e parenti per il piacere di stare insieme e magari per festeggiare eventi .compleanni e ricorrenze in allegria; anche se spesso si esagera…! festeggiamenti per certi matrimoni (l’usanza è quasi sparita) sopratutto nel Centro Sardegna duravano ininterrottamente per vari giorni con pranzi e cene che si susseguivano.

A Cagliari le riunioni conviviali tra amici denominate “picchettaras”, molto spesso si svolgono oltre che nelle trattorie sopratutto nelle case private in campagna o al mare in modo tale da consentire ai partecipanti di fare chiasso “carraxiu” e magari cantare dopo le abbondanti libagioni senza disturbare nessuno. In tali circostanze sono particolarmente apprezzati e importanti gli specialisti del cucinare, non devono mai mancare “is arrustidoris” (maestri del barbecue) e I “sughisti” (categoria introdotta di recente) che comprende persone capaci di preparare gli intingoli per il condimento della pasta e dei secondi).

Questi convivi, non adatti a chi deve rispettare rigorosi regimi alimentari, hanno avuto precedenti storici notevoli e significativi ..al riguardo per evidenziare gli eccessi di cibo basta ricordare che Martin Carrillo (Visitatore generale inviato in Sardegna nel 1612 dal Re di Spagna) nella relazione trasmessa al re Filippo III scrive che in occasione di una ordinazione sacerdotale a Mamoiada, s’imbandì un banchetto con 22 vacche, 26 vitelle, 28 capi grossi di selvaggina, 740 montoni, 300 tra piccoli ovini e porchetti, 600 galline oltre ad enormi quantità di pesce, riso, frumento, dolci vari e 25 grosse botti di vino. Il tutto è descritto da Francesco Alziator a pag 303 del Volume “La città del sole” del Corpus Kalaritanus.

Sarebbe importante sapere al riguardo a quante persone era destinata una cosi gigantesca quantità di vivande.

Un discorso particolare meriterebbe la tradizione dei dolci e dei vini tipici delle varie zone della Sardegna che però, data la complessità e vastità è certamente meglio rimandare ad altra specifica occasione.

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