Stefania Masala e Giorgio Albertazzi, storie di vita e di teatro_di Emilia Filocamo

Per tutta la durata di questa intervista a Stefania Masala, meravigliosa attrice sarda non a torto definita bagaglio e tesoriera, testimone ed erede  di Giorgio Albertazzi, ho avuto l’impressione di un colloquio a tre. Ed era un colloquio che necessariamente andava declinato in questo modo: c’era in ogni tratto delle sue parole, perfino in un momento nel quale la sua voce si è quasi spezzata per la commozione ricordando un episodio bellissimo, una presenza particolare, una sorta di nume che le ha indirizzato il cuore verso le mie domande. E più che riportare un resoconto delle sue esperienze artistiche, della sua evoluzione come attrice e di quello che sarà il suo futuro sul palco, ho avuto la netta sensazione che stava dicendo tutto quello che forse non è riuscita a dire ad Albertazzi in tempo; una sorta di lettera di affetto di cui sono diventata, per casualità e fortuna la testimone sotto dettatura. Stefania Masala, energia e talento condensate in una giovane età, si consegna così, con il suo  papà “ adottivo” come lei stessa mi racconterà,  invisibile e perennemente alle sue spalle, anzi mano nella mano con lei.

Stefania, so che è una domanda a cui avrai risposto chissà quante altre volte, ma qual è il tuo ricordo più vivo di Giorgio Albertazzi? 

E’ un ricordo inevitabilmente lungo 20 anni, l’ho conosciuto da ragazzina e posso dire che mi ha cresciuto artisticamente e anche come persona. Era il mio migliore amico e il vuoto che ha lasciato dopo questi mesi dalla sua assenza, è incolmabile, incommensurabile. Da lui ho imparato davvero tutto come attrice: devo a lui la lezione sulla libertà e l’improvvisazione, l’invito a non cercare soluzioni già trovate ma a tirarne fuori di nuove. Da un punto di vista umano, invece, non posso non ricordare il suo invito perenne a leggere, ad essere curiosa, ad approfondire le cose, e mi ha aiutato anche ad affrontare le situazioni della vita. Quest’estate, ad esempio, ho dovuto fare una tac e dovevo stare un’ora immobile in un tubo per consentire la riuscita dell’esame. Allora mi sono ricordata di quello che faceva lui quando doveva subire l’iniezione alla spina dorsale che gli  limava le vertebre che si erano unite:  Giorgio  ripeteva versi a memoria, non  so da Dante a  Shakespeare, ad esempio. L’ho fatto anche io e sono riuscita a superare quell’esame, ricevendo anche i complimenti dal medico. Da lui ho imparato come fare le valigie quando si partiva per le tournee perché, ovviamente, stando tanti mesi fuori, non sai mai cosa portare. Non era mai un maestro, ma un amico, un confidente, ed era bello fare questo tipo di ricerca costante insieme. Ricordo ancora quando andavamo a fare la spesa insieme: lui riempiva il carrello di cose inutili, ma colorate, faceva una spesa estetica.

Posso chiederti qual è la cosa, il consiglio che ti ripeteva più spesso? 

La cosa che mi ripeteva più spesso era di essere libera, me lo ha scritto in un biglietto poco prima di uno spettacolo. Essere libera che equivale soprattutto ad essere libera mentalmente, a non calcare i cliché, che equivale anche ad assumersi dei rischi, magari arrivare un po’ impreparati piuttosto che perfetti, perchè da quella impreparazione può nascere qualcosa di nuovo. Lui diceva sempre, era il suo motto, che ogni soluzione è una trappola perché esclude di fatto tutto il ventaglio di altre possibilità ed è una trappola che ingabbia e che ci scegliamo noi stessi. Era l’unico a dire una cosa del genere, soprattutto a teatro dove tutti i registi dicono di fissare una cosa, ma se la fissi quella cosa muore all’istante, perde di freschezza, di genuinità. Consigliava di non fissare una parola per ripeterla, ma trovare sempre una ragione per dirla con nuovo slancio e con  freschezza. Altrimenti ci si estranea, mentre l’attore deve essere vigile in ogni istante, cosciente. La concentrazione è il contrario della meditazione. 

A pochi giorni dalla scomparsa di un altro grande, Dario Fo, da artista, qual’è il tuo sentimento in proposito? 

Con Dario se ne va una delle ultime personalità straordinarie del ‘900 e la cosa più triste è pensare che non ci sono eredi, che manca la generazione dei cinquantenni/ sessantenni che avrebbero dovuto prendere il loro posto, un po’ per colpa loro che non hanno prescelto di seguire quel  percorso e un po’ per colpa della società in cui viviamo, fatta di improvvisazione. Ma attenzione non parlo dell’improvvisazione consigliata da Giorgio, ma di quella che dà prodotti effimeri, se pensiamo ai reality, in cui   gli attori se non diventano famosi entro i 30 anni non lo saranno più, una società quantitativa e non qualitativa. Una volta gli attori come Fo, come Giorgio, andavano a bottega e la preparazione era tutto: è difficile rimpiazzare personalità artistiche del genere. Con Dario che ho ammirato tanto e che era un uomo libero, nonostante adesso gli abbiano rinfacciato delle posizioni politiche, se ne va un grande, il suo teatro è legato necessariamente a lui.  Penso alla sua ricerca del teatro medioevale e avverto il vuoto che lascia. Ci eravamo visti l’ultima volta al funerale di Giorgio e  mi ero accorta che non stava già bene: sicuramente era molto addolorato per la scomparsa di Albertazzi, ma si vedeva che era strano, diverso. 

Cosa porti della Sardegna nel tuo essere artista?  

Per poter fare teatro classico ho dovuto studiare dizione e quando torno a Sassari un po’ mi fa male se, parlando, non riconoscono la mia provenienza  ma di certo non avrei potuto farlo con un accento evidente. Della mia terra mi porto dentro la  sardità totale, Giorgio mi chiamava “ sua sardità”. Sono paziente ma se mi arrabbio non mi passa subito. Dentro di me riconosco scritti i codici tipici della Sardegna: non amo il pettegolezzo, parlo poco, parlo con gli sguardi e tante altre cose, come l’amore per il cibo e per il buon vino. Non a caso anche qui scelgo ristoranti prevalentemente sardi, è un senso di appartenenza tipico degli isolani. 

I tuoi prossimi progetti? 

Con Edoardo Siravo saremo in teatro e porteremo l’Aulularia di Plauto, la pentola d’oro, in latino. Con il produttore abbiamo fatto questa scelta, ancor prima che Giorgio se ne andasse, di fare una cosa per quando lui non ci sarebbe più stato perché sarebbe stato troppo doloroso andare in scena con Shakespeare ad esempio ricordando come lo faceva lui. Soprattutto per tutti noi della compagnia che gli siamo stati così vicini: si diventa una famiglia, con tecnici, attori e registi. E poi Giorgio, essendo anche una persona d’età, aveva forse bisogno di circondarsi di gente di cui si fidava, sulla scena così come nella vita. Scegliere di fare l’Aulularia in latino è stato prendere un attimo di fiato, all’inizio il produttore voleva fare il Mercante di Venezia, ma noi ci siamo opposti. Pensare allo Shylock straordinario che faceva Giorgio e riproporlo sarebbe stato assurdo. Il nostro Plauto non sarà barboso, una commedia molto simile al teatro fisico di Dario Fo, un grammelot ed è un modo per riportare questo autore ai suoni del teatro romano del tempo. E poi sarà molto adatto ai giovani:  pensa che debutteremo al Ghione a marzo e so che la piantina è già quasi tutta piena. E poi con il giornalista David Gramiccioli, porteremo in scena  uno spettacolo che racconta il ballo nel ‘900 partendo dal tango fino alla discoteca, un excursus che coinvolgerà attori e ballerini. 

Quando giustamente ti viene riconosciuto che tu raccogli un po’ l’eredità di Giorgio Albertazzi come ti senti e soprattutto come speri di onorare il suo ricordo nel tuo percorso artistico?

Sicuramente è un’eredità  molto importante, che mi dà una grande responsabilità. Non mi auguro chissà cosa per il mio futuro,  che so un film con Ozpetek o chissà con quale altro regista altisonante. Spero di non perdere la mia onestà intellettuale,  quella che mi ha insegnato lui e di non diventare l’ennesima attrice che fa questo per mestiere, per guadagnare. Voglio continuare ad essere curiosa e non accontentarmi mai. 

Questa doveva essere l’ultima domanda per Stefania Masala, ma poi, come in un flusso continuo l’intervista, anzi la chiacchierata, è proseguita  con una serie di suoi ricordi bellissimi. Il suo amore grandissimo per il nonno Giovanni che dopo la sua morte, le ha lasciato quasi in eredità, la straordinaria coincidenza  di incontrare le persone a lei più care tutte con un nome che cominciava con la G, quasi un modo per tenerla per mano.  E poi quando a Natale scorso Giorgio Albertazzi le aveva chiesto se poteva adottarla come figlia perché era la figlia che aveva sempre desiderato “ Le persone che sono entrate nella vita di Giorgio raramente ne sono uscite, se non per una loro scelta” – mi ha rivelato Stefania “ lui lasciava sempre la porta aperta, anche nella delusione, non cambiava, diceva che se si comportavano in un determinato modo era un problema loro, non suo, non si è mai incattivito. E mi spiace non aver visto al suo funerale le Istituzioni, non gli hanno mai perdonato la Repubblica di Salò, ma ogni qualvolta se ne parlava, Giorgio piangeva e ti giuro era dolorosissimo vedere un uomo di quella statura soffrire per una cosa trattata con tanta superficialità”. Non so quando io e Stefania Masala abbiamo effettivamente chiuso l’intervista, io non avevo voglia di riattaccare in fondo per scoprire ancora di più di lei e di questo suo “ papà” artistico speciale e lei non voleva, credo, smettere di raccontare. Tutto quello che è capitato in mezzo a questo dialogo era forse già scritto in un copione improvvisato, voluto,  previsto non qui, ma  da qualche altra parte, forse in alto. 

dalla rivista ilCagliaritano

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