Ricordi di un vecchio cagliaritano: la vita in città nel secondo dopo guerra_di Ermenegildo Lallai

Le città vengono spesso impropriamente assimilate alle persone; alle stesse sono infatti spesso attribuiti specifici “caratteri ”, quasi umani, come il patrimonio delle tradizioni e le abitudini locali.

Tale “personalizzazione” è invece sicuramente l’espressione più reale della capacità dei cittadini di adattare il loro modo di vivere e le stesse abitudini e tradizioni al momento storico. Si tratta di un vero e proprio patrimonio in continua evoluzione che condiziona e guida profondamente la vita e i comportamenti delle persone che possono essere considerate espressione e testimoni del loro tempo. Tanto emerge anche nei miei ricordi di bambino che ha vissuto i difficili anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale.

Tutti, piccoli e adulti, vivevamo in modo spartano accontentandoci di quel poco che si poteva avere, anche se quasi nessuno si lamentava: si cercava di andare avanti con speranza e umiltà e sopratutto con grande dignità.

Nella mia memoria, quasi cinematografica, cosi come in quella dei tanti che hanno vissuto quegli anni particolari, appaiono aspetti del passato, persone, luoghi e modi di vivere, ormai cambiati e scomparsi nel tempo, che però hanno avuto un ruolo molto importante nel momento in cui sono “apparsi” nella scena cittadina.

Si trattava di un mondo molto diverso dall’attuale. Pur non esistendo ancora la televisione, i computer, i telefonini , i viaggi , i super mercati e i capi di abbigliamento firmati noi bambini eravamo felici di vivere.

Di quei tempi, ormai lontani, manca forse il rispetto verso il prossimo e in particolare verso i genitori e gli insegnanti – vengono oggi esaltati solo i diritti ma molto spesso si ignorano i doveri- si viveva, allora, in modo completamente diverso all’insegna della semplicità e si accettavano situazioni oggi impensabili.

I prodotti alimentari venivano venduti senza le garanzie di igiene in vigore fortunatamente ai nostri giorni. Non esistevano infatti confezioni sigillate: nelle latterie la quantità di latte da vendere veniva misurata con dei recipienti graduati, sulla cui pulizia era meglio non indagare, e i lattai erano molto spesso accusati dai clienti , anche con ragione, di allungare il prodotto con acqua. Anche la pasta, tenuta quasi sempre in cassetti di legno, era venduta a peso dai venditori che dosavano manualmente la quantità richiesta dagli acquirenti sulle bilance dove venivano poggiate merci di tutti i tipi.

Anche la “conserva” di pomodoro veniva venduta, sempre a peso, e versata con cucchiai di legno in confezioni di carta spessa a forma di cono che i bambini, che spesso venivano inviati a ritirare i prodotti nei negozi, avevano l’abitudine di premere in modo da fare fuoriuscire, mangiare e gustare parte del contenuto.

Era del tutto normale usare abiti dismessi dai genitori o dai parenti e indossare calzoncini corti persino nelle fredde e ventose giornate invernali.

Si riteneva, addirittura, che il portare calzoncini lunghi fosse un modo di vestirsi non consono ai bambini della città.

Cagliari era rispetto ad oggi un’altra città, sicuramente più semplice.

Fino agli ultimi anni quaranta i trasporti pubblici erano effettuati dai tram contraddistinti dai numeri 1( San Benedetto -Sant’Avendrace), 2 ( Piazza Yenne – San Mauro), 3 (Piazza Yenne – Terrapieno) 4 (Piazza Yenne – San Bartolomeo) e da quelli che partendo dalla Via Roma arrivavano ai Centri dell’immediato Campidano e al Poetto.

Attorno agli anni 1948/1949 vennero immessi autobus ( denominati per un certo periodo auto tram) che collegavano, col numero 5 ( in un primo tempo AB), Piazza D’Armi con Via Gianturco. Nel 1951 furono introdotti nella stessa linea 5 i primi 9 filobus con capolinea la Piazza Amsicora. Successivamente due anni dopo venne inaugurata l’ulteriore linea filoviaria N. 7 che collegava la Stazione delle FFSS con Piazza Pirri.

I tram erano a comando doppio, le zone di guida erano situate nelle due estremità delle vetture e al loro fianco si trovavano gli spazi delimitati da cancelletti riservati all’ingresso e all’uscita dei passeggeri.

Dietro il manovratore una porta scorrevole introduceva nella zona interna, dotata di panche in legno, riservate ai viaggiatori. Nei mezzi pubblici operavano i bigliettai e la regolarità del certificato di pagamento era molto spesso sottoposto alla severa verifica di inflessibili controllori.

Ma il vero assillo per questi ultimi non era certo il controllo dei biglietti ma il problema dei ragazzini che si sedevano o si aggrappavano nei paraurti della parte posteriore esterna dei mezzi, e che riuscivano a compiere tragitti a “scrocco” solo per puro divertimento o per dimostrare agli amici il loro coraggio. Vi era una guerra continua tra controllori e ragazzi che sfociava qualche volta in qualche pedata o schiaffo assestato dai tranvieri e quasi sempre in un volgare reciproco scambio di parolacce in perfetto gergo cagliaritano.

C’era in particolare una guerra continua tra un controllore di una certa età e i ragazzi. Il tranviere, persona abbastanza alta, molto magro, sempre abbronzato (così almeno sembrava) cercava, in verità con scarsi risultati, di acchiappare i ragazzini che gli avevano affibbiato il nomignolo di “pipitziri” (cavalletta) forse per il suo viso “aggrinzito”.

Molto spesso i giovani, sempre per puro divertimento, erano anche soliti poggiare sui binari del tram cartucce da gioco, che compravano in un noto negozio di giocattoli della Via Manno, per il piacere di sentire le relative esplosioni al passaggio dei mezzi.

Molti di quei giovani, qualificabili con l’espressione cagliaritana di occasioneris (provocatori), avevano anche la pessima abitudine di insolentire con estrema cattiveria, appellandoli col soprannome, poveri storpi o malati di mente che giravano la città per chiedere l’elemosina.

Uno di questi infelici, talmente esasperato dalle continue provocazioni, teneva sempre tra le mani un grosso sasso involto in carta di giornale che lanciava con estrema violenza per cercare in qualche modo di colpire chi gli dava la baia.

Gridare il soprannome a questi sfortunati personaggi per una certa categoria di ragazzi, non sensibili alle disgrazie altrui, era considerato quasi un obbligo.

Resta da dire che i soprannomi con cui erano conosciuti tanti poveri e sfortunati individui erano ben altra cosa rispetto a quelli molto diffusi nei centri della Sardegna con cui venivano identificate , con rispetto e senza alcuna intenzione di dileggio intere famiglie.

Si trattava di un appellativo che, sopratutto in passato, identificava la gens e che solo raramente aveva una base offensiva.

La baia ai diseredati era in effetti una vera piaga nella Cagliari degli anni quaranta e cinquanta del secolo passato e ben poco in effetti potevano fare i volonterosi e solerti vigili urbani che cercavano in ogni modo di eliminare o perlomeno attenuare il triste fenomeno.

In quegli anni il Corpo dei vigili urbani svolgeva un ruolo estremamente importante per la città. Controllava i mercati e sorvegliava il regolare flusso, invero molto limitato, della circolazione sulle strade e regolava con vigili movieri, su pedane bianche e con strisce blu ai lati, l’alternarsi dei passaggi dei mezzi negli incroci tra Via Roma e il Largo Carlo Felice e nella Piazza Amendola.

I vigili in servizio erano riconoscibili per una fettuccia a strisce bianche e rosse che tenevano sul bordo della manica della giacca o del cappotto.

Esisteva un conflitto permanente tra i Vigili e i ragazzini che erano soliti giocare a pallone nelle non molto frequentate vie dei quartieri popolari che terminava molto spesso col doloroso sequestro del pallone.

I giocatori spesso per evitare di perdere il prezioso pallone erano soliti mettere delle vedette alle imboccature della strada-campo di calcio che

all’arrivo dei vigili avevano il delicato e fondamentale compito di avvertire dell’imminente pericolo urlando “scarpinè po sa pulima” (scappate c’è il vigile).

I vigili urbani erano molto conosciuti in città ed era straordinario per alcuni di essi constatare la differenza tra quando, non in servizio e in abiti borghesi, si rivolgevano agli amici, come normali cittadini, con le parole allungate del classico slang cagliaritano e quando, invece, in divisa, esercitavano le funzioni ufficiali di loro competenza. Il modo di esprimersi in tal caso era estremamente differente, il tono diventava curiale e la sempre ben usata lingua italiana, risentiva stranamente di influenze siciliane e romanesche.

I vigili urbani dovevano inoltre combattere difficili battaglie in occasione delle partite del Cagliari allo stadio Amsicora. In tali circostanze molti giovani era soliti arrampicarsi pericolosamente sugli alberi che costeggiavano il campo di calcio per vedere le gare gratis e i vigili insieme a Poliziotti e Carabinieri, per evitare facili e possibili cadute e incidenti, cercavano di farli scendere dalle cosidette “ tribune alberate”, con risultati, in verità, non sempre positivi.

Il Cagliari era, così come del resto ancora oggi, molto seguito. Lo stadio Amsicora era abbastanza antiquato, aveva un solo basso anello di gradinate e il campo da gioco, in terra battuta, nelle giornate autunnali e primaverili veniva abbondantemente innaffiato prima delle partite mentre purtroppo dopo le piogge si trasformava in un autentico pantano.

I giocatori di quegli anni, i vari Santarelli , Bersia, Simeoli, Villa , Bertoli, Morgia, Gennari (che spesso riusciva a fare goal calciando direttamente i calci d’angolo), Mezzalira, Santagostino. Pison e i sassaresi Vanni Sanna e Serradimigni erano molto popolari tra i tifosi.

Meritano un particolare ricordo anche gli allenatori del tempo Allasio, Rigotti, Censo Soro e in particolare Silvio Piola, il famosissimo centro avanti della nazionale Italiana campione del mondo nel 1938.

Il Cagliari giocava con alterni successi nella serie B e il sogno dei dirigenti e della tifoseria era la promozione in Serie A che sembrò, invero, molto vicina al termine del campionato 1953/1954 allorquando la squadra isolana disputò con la Pro Patria nell’allora Stadio Torino di Roma (poi diventato Flaminio) lo spareggio per la promozione nella massima divisione.

Era tanta l’attesa in città che l’Unione Sarda organizzò la radiocronaca della partita. Il Cagliari purtroppo perse cancellando le speranze dei tanti tifosi che con grande ottimismo si erano recati nel Terrapieno, davanti alla sede del giornale, per sentire il commento in diretta dallo Stadio, diffuso da improvvisati altoparlanti, del famoso giornalista Mario Mossa Pirisino.

La promozione in serie A arrivò solo 10 anni dopo nel 1964.
Il centro del tifo era il Bar centrale di Piazza Yenne gestito allora dal padre del famosissimo Marius a cui negli anni successivi (il bar era stato spostato in Viale Trento) venne attribuito il titolo onorifico di Sindaco dei supporter del Cagliari.

Piazza Yenne e le strade limitrofe erano il vero centro della vita dei cagliaritani, era il luogo dove si fissavano gli appuntamenti e alla sera in tanti ci si ritrovava. Non mancavano i bar, come il Bar Centrale o le “offellerie” (Pasticcerie). Tra queste ultime una menzione particolare merita il locale dei Clavuot. Era la gioia dei fini palati dei cagliaritani.

Bastava anche passare accanto per godere dei deliziosi e attraenti profumi delle famosissime e ricercatissime paste, entrando poi nel locale si aveva la piacevole sensazione di entrare nel paradiso dei dolci: gli aromi si mischiavano armonicamente . Uno dei prodotti in vendita particolarmente apprezzato, rimasto tuttora ineguagliato, era il cannoncino. L’involucro era croccante e perfettamente friabile e la crema all’interno aveva un gradevolissimo e leggerissimo gusto di limone: il tutto era esaltato dalla giusta e tiepida temperatura che lo rendevano straordinario.

Venivano inoltre particolarmente apprezzate le brioches, i bomboloni alla crema ( in un secondo tempo anche al cioccolato), le cosidette americane, varie tipologie di paste al cioccolato e i fatti fritti.

Specialmente la domenica era normale vedere intorno a mezzogiorno tantissime persone uscire dalla pasticceria , portando, quasi con orgoglio, un pacco di paste e avviarsi a passi svelti verso la propria abitazione forse perché ansiosi di anticipare i tempi della loro consumazione.

Nella stessa Piazza Yenne era frequentatissimo il Bar gelateria della grotta Marcello la cui specialità era la famosissima e apprezzatissima cassata. Si trattava di un gelato particolarmente gustoso per il quale il titolare aveva ottenuto ufficialmente, negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, il regolare brevetto per la sua produzione. Era un dolce basato su gelati di crema e panna con canditi, divisi tra di loro da un biscotto intinto di liquore. Il Bar pasticceria produceva inoltre tanti tipi di gustose e molto apprezzate paste e gelati: l’annessa famosa “ Grotta Marcello”, era la sede più ricercata e alla moda per i balli in occasione della festa delle matricole e per i rinfreschi dopo i matrimoni. Vanno doverosamente ricordati anche il Caffè Genovese in piazza Costituzione per il gelato al torroncino e i semifreddi, il Caffè Torino in Via Roma per i gelati di “pannera” (a base di caffè) e la cioccolata e il caffè Meloni e Ramondetti in Via Baylle per i gelati e le paste.

Gli studenti universitari oltre al citato ballo annuale organizzavano appuntamenti molto attesi e seguiti. C’era la temuta caccia alle matricole (studenti che si iscrivevano al primo anno di corso) che a meno che non fossero in possesso di un valido e autorevole “papiro” ( una sorta di lasciapassare con disegni non proprio da collegiali firmato da universitari anziani) subivano scherzi e prese in giro spesso pesanti.

Veniva organizzato un divertente “processo alle matricole” nel quale le requisitorie dell’accusa e le arringhe di difesa degli “imputati” venivano pronunciate in un divertente e improbabile latino maccheronico.

Nei giorni della festa era obbligatorio che gli universitari indossassero il cappello meglio conosciuto come goliardino del colore della facoltà nella quale erano iscritti con ai lati le striscie dorate che indicavano l’anno di frequenza.

L’appuntamento più atteso di tutta la festa era comunque la corsa dei carretti con partenza da Piazza dell’Arsenale e prosecuzione lungo il Terrapieno, Via Manno, Piazza Yenne, Largo Carlo Felice e arrivo in Via Roma. In un secondo momento la corsa si è svolta lungo il Viale Merello con partenza da piazza D’Armi.

I carretti erano costruiti artigianalmente dagli studenti e consistevano in tavoloni di legno varianti da uno a 4 metri di lunghezza e una larghezza di 60 centimetri circa sui quali ai lati venivano montati grossi cuscinetti , due fissi ai lati posteriori sui quali erano inseriti sistemi molto semplici di frenatura, e altri due , spesso anche uno solo, anteriormente ai lati di una traversa mobile che veniva utilizzata, con funzione di sterzo, per dare la direzione.

Il sistema di guida era sicuramente la parte più interessante del carretto, si andava dalla semplice corda legata agli estremi della traversa mobile anteriore che veniva tirata manualmente dal guidatore ai più complicati sistemi di ingranaggi legati ad uno sterzo di auto.

In ogni carretto prendevano posto dai due ai cinque componenti che davano l’avvio alla corsa spingendo il mezzo con un sistema totalmente simile a quello usato nelle gare invernali di bob.

Lungo le curve del percorso venivano sistemate balle di foraggio per attenuare le possibili e continue uscite fuori pista.

La discesa del giorno della festa era preceduta da prove notturne durante le quali l’arrivo dei carretti era preceduto dal grido “pista” urlato da parte dei responsabili della corsa.

La festa delle matricole ha perso gradualmente negli anni la sua importanza, oggi non viene più celebrata non solo perché forse sarebbe impossibile bloccare il traffico per fare correre i carretti ma sopratutto perché lo spirito che animava i goliardi di quegli anni lontani non esiste più.

La vita dei Cagliaritani, come detto, aveva come centro la Piazza Yenne e le vie circostanti. Le magnifiche colonne del sempre rimpianto mercato del Largo Carlo Felice accoglievano ogni giorno migliaia di persone che si recavano a fare la spesa.

Oltre alle padrone di casa andavano regolarmente a fare gli acquisti quotidiani tantissimi uomini che ogni mattina sceglievano con grande competenza i prodotti necessari per preparare il pranzo e la cena. Ogni compratore aveva i suoi rivenditori di riferimento e capitava molto spesso di assistere a interminabili discussioni sulla qualità della verdura proposta nelle varie bancarelle. Ma la vera competenza i compratori la dimostravano, da buoni cagliaritani, sopratutto nella scelta dei pesci la cui freschezza veniva accertata con l’accurato controllo degli occhi e che veniva comprato anche in base a come si intendeva cucinarli, vi erano infatti quelli adatti per preparare rispettivamente la “cassola”, il fritto misto, la burrida, su scabecciu e il tonno lesso.

Circolava la voce, in particolare tra i discendenti delle tante famiglie con antenati liguri, che per ottenere una saporita zuppa fosse consigliabile aggiungere nel tegame della cottura un pezzetto di roccia marina.

Un discorso particolare era dedicato ai frutti di mare che erano scelti con grandissima attenzione, le cozze e le arselle venivano spesso acquistate per preparare is cocciulas e cozzas a sa schiscionera.

Ma il mercato del Largo aveva anche una importante funzione sociale , era infatti il luogo in cui i tanti acquirenti incontravano amici e conoscenti. Tra le bancarelle oltre ai consigli sul come cucinare e sul dove trovare i prodotti migliori si parlava quasi sempre dei problemi cagliaritani e sopratutto si scambiavano pettegolezzi, spesso molto pepati, su persone molto conosciute (crastuliminis).

Ma l’aspetto forse più incredibile era che nei quartieri storici della città esisteva un incredibile e veloce passaparola che informava in tempo reale dell’arrivo nel mercato di pesci e frutti di mare di qualità particolarmente pregiate che determinava una immediata corsa per poterli acquistare.

Gli anni del dopoguerra, sicuramente difficili per tutti, hanno lasciato comunque in chi li ha vissuti una traccia molto importante: i ricordi di quel periodo sono tantissimi e tutti però accompagnati da una profonda nostalgia che porta a fare dimenticare aspetti non piacevoli come la diffusa povertà che costringeva tantissime famiglie ad una vita piena di sacrifici e ad abitare in ambienti senza quei confort che oggi sono diventati normali e indispensabili.

E’ doveroso ricordare che tantissimi cagliaritani in quegli anni si sono improvvisati artigiani aggiustando, non solo alla buona, ma spesso anche con una certa perizia, le case danneggiate dai bombardamenti, dove abitavano, per renderle più confortevoli.

I lavori comportavano naturalmente spese notevoli che venivano affrontate con duri sacrifici e rinunce da parte delle famiglie.

E’ da notare però che nonostante la limitatezza delle risorse finanziarie tanti cagliaritani cercavano di aiutare generosamente , nei limiti del possibile, chi stava peggio.

Merita un particolare ricordo tra i personaggi importanti di quegli anni la straordinaria figura di Fra Nicola, il Frate Cappuccino considerato santo, che con grande umiltà percorreva in silenzio le vie della città, con un sacco nelle spalle, e pur senza chiedere veniva raggiunto e avvicinato da tante persone che gli davano un obolo e gli chiedevano consigli e preghiere.

C’era un generale senso di modestia e una grande voglia di impegnarsi , tutti nonostante le grandi difficoltà vivevano e si comportavano con grande dignità animati però, e questo è il fatto sicuramente più straordinario, da un grossa aspettativa e speranza per il futuro.

E’ stata questa sicuramente la molla che ha portato alla ricostruzione di Cagliari guidata e sostenuta da uomini di altissimo rilievo, anche culturale, come, tra gli altri, i vari Cesare Pintus, Pietro Leo e Luigi Crespellani che diedero l’ avvio a difficili e gravosi programmi di ricostruzione e sviluppo con il sostegno determinante di una classe politica illuminata e sopratutto della volontà dei cagliaritani che credevano fermamente nella rinascita e nella ricostruzione della città.

Va anche ricordato che a fianco alla ricostruzione materiale un gruppo importante di uomini come Nicola Valle, Francesco Alziator e Giovanni Lilliu avviò con successo con la creazione dell’Associazione “Amici del libro” un difficile e per certi aspetti impensabile rilancio della vita culturale cittadina e regionale che veniva considerata un sostegno indispensabile e complementare rispetto alla ricostruzione dei gravi danni non solo materiali causati dai bombardamenti.

A questa meritoria attività vanno anche aggiunte le trasmissioni di Radio Sardegna che la domenica a mezzogiorno, mandava in onda, intorno alle 12, una seguitissima trasmissione sulla musica popolare regionale curata dal già citato Nicola Valle e sempre la domenica, alle 14,30, la “Scenetta dialettale” interpretata dai bravissimi attori Aldo Ancis, Cimbro Monteverde, Ninni Sacerdoti e Pinuccia Defraia.

Le trasmissioni avevano una importante funzione culturale in quanto con la presentazione delle varianti della musica popolare isolana e dei suoi interpreti, illustrati dallo stesso Nicola Valle e da personaggi del livello di Gavino Gabriel, si cercava di tutelare l’importante patrimonio della nostra Isola e con la scenetta dialettale si tendeva a mantenere viva la lingua sarda.

Si trattava di due delle poche azioni, portate avanti in quegli anni con grande coraggio dagli autori dei programmi per contrastare l’imperante e devastante tendenza di annullare la cultura della Sardegna e sostituirla con modelli che sopratutto attraverso la radio e successivamente la televisione arrivavano dalla penisola.

Era un fenomeno di non giustificabile provincialismo che per anni ha purtroppo dominato la vita dei Sardi e che solo a partire dagli anni settanta è stato finalmente contrastato e superato.

Un breve ricordo relativamente a quegli anni ormai lontani merita il modo in cui i cagliaritani vivevano le feste Natalizie. Si trattava di un periodo quasi magico di attesa che iniziava sin dai primi giorni di dicembre e che aveva il primo importante appuntamento nella Novena del Natale a cui assistevano intere famiglie. Il “Regem venturum” e il “Tu scendi dalle stelle” venivano cantati in coro con grande trasporto da grandi e piccoli. La sera del 24 dopo la tradizionale cena con un menù che sintetizzava le tradizioni culinarie delle famiglie si andava in Chiesa per assistere alla solenne Messa di mezzanotte al termine della quale ci si scambiava gli auguri. A differenza rispetto ai nostri giorni i bambini non ricevevamo i regali di Babbo Natale, allora quasi sconosciuto, i doni arrivavano solo la notte della Befana. Altro appuntamento molto importante per le intere famiglie era la partecipazione al Te Deum del 31 dicembre.

Quanto scritto rappresenta una immagine, sicuramente nostalgica, basata sui ricordi di un mondo che non esiste più. Restano vivi di quegli anni la grande voglia di vivere, la capacità di accontentarsi e godere dell’esistente, il calore della famiglia, il rispetto per tutti e il miracolo della ricostruzione della città.

Sembra assurdo che l’impegno per la Rinascita e i grandi sacrifici affrontati dai Cagliaritani per cancellare i gravi danni causati dalla guerra, ritornare ad una vita normale e rendere la città ancora più bella rispetto all’anteguerra non siano stati sinora ricordati da un monumento dedicato allo straordinario impegno de “is casteddaius” per ricostruire la città.

Le varie proposte formulate e le sollecitazioni al riguardo non hanno avuto ancora, incredibilmente, alcun seguito.

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