Cagliari a fragu_di Giampaolo Lallai

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Giampaolo Lallai

Cagliari ha ancora i suoi antichi odori e profumi? La risposta è senz’altro affermativa se facciamo riferimento a quelli naturali, quelli, cioè, che connotano in modo tipico la città, che abbiamo sempre sentito e che, si spera, continueremo a sentire anche in futuro: i profumi del mare, degli stagni, del Maestrale, dei giardini, di Monte Urpinu, del Poetto, della stessa aria. Molto spesso ci scopriamo intenti alla loro ricerca e puntualmente li ritroviamo, assieme alle tante bellezze della nostra città. Fanno parte integrante di essa.

Ad essere ormai da tempo quasi del tutto svaniti sono, invece, quegli odori e quei profumi che eravamo soliti avvertire per le strade di Cagliari: nelle vicinanze di una certa drogheria o di una pasticceria o di un bar o di una pescheria o, più semplicemente, di un’abitazione o di un’officina, o di un fabbro o di una falegnameria. Lo sanno bene soprattutto coloro che sono soliti girare Cagliari a piedi.

Oggi, peraltro, abbiamo importato in larga misura i profumi esotici, quelli, per intenderci, che sanno in prevalenza d’incenso, che si espandono bruciando lentamente e che sovrastano ogni altro tipo di odore, portandoci a dimenticare i profumi veri, quelli della nostra tradizione.

Una volta a Cagliari le cose non stavano così. Addirittura sarebbe stato possibile camminare a fragu, ossia percorrere un certo itinerario affidandosi esclusivamente al proprio olfatto e seguendo, in quella data strada o piazza, il susseguirsi di odori divenuti orma consueti. A occhi chiusi, insomma.

Prendiamo, come esempio, la piazza Yenne di circa cinquant’anni fa. Per chi vi arrivava scendendo dalla via Manno, sarebbe stato abbastanza agevole giungere sino alla parte alta della stessa piazza, tenendo gli occhi chiusi, appunto, e lasciandosi guidare solo dagli aromi. Svoltato l’angolo, infatti, si percepiva immediatamente il soave profumo dell’Offelleria (così si chiamavano in prevalenza i bar) Clavuot e subito dopo quello, che sapeva soprattutto di spezie, della drogheria, sempre dei Clavuot. Proseguendo ancora “a fiuto” si sarebbe raggiunto il tabacchino (su gabellotu) che emanava naturalmente l’odore delle sigarette e poi, superato il negozio di strumenti musicali Borea (dal quale provenivano, però, solo suoni e note musicali), si veniva attratti dal profumo di birra e gassosa del Bar Centrale e ancora da quello della gelateria Marcello. Qui si confezionavano squisitissimi gelati e, in particolare, cassate e coni di tutti i gusti e prezzi.

Superata la gelateria Marcello, sarebbe stato uno scherzo raggiungere la parte alta della piazza: bastava seguire il profumo proveniente da una frequentatissima (specie la sera) mescita di vino, piuttosto buia, che emanava un forte, tipico odore.

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Prove analoghe si sarebbero potute effettuare in tantissimi altri luoghi della città: via Manno, corso Vittorio Emanuele, via Garibaldi, via Lamarmora, piazza Martiri, largo Carlo Felice, Via Roma, via Angioj, etc. In piazza Garibaldi vi era un chioschetto che produceva e vendeva gli indimenticati bomboloni, vera e propria leccornia per i bambini, ma non solo. Tutta la piazza “beneficiava” del piacevolissimo profumo che rappresentava un richiamo irresistibile.

Anche i negozi spandevano per la strada i loro profumi soprattutto perché trattavano merce sfusa. In particolare quelli di generi alimentari: l’olio, la pasta, il riso, la conserva, il latte, il vino, i legumi, i biscotti, etc. non erano venduti come oggi, secondo le rigide disposizioni di legge vigenti, in appositi contenitori ermeticamente chiusi che non lasciano filtrare alcun odore.

Il rivenditore dell’estratto di conserva, ad esempio, poneva sul piatto della bilancia prima un foglio di carta gialla e poi uno di carta oleata e su questa versava con un mestolo di legno la quantità richiesta prelevandola dall’apposito contenitore. Poi pesava e richiudeva il tutto confezionando un pacchetto. Nel rientrare a casa era fortissima la tentazione di aprirlo per un fugace assaggio. Per la maggior parte degli altri prodotti chi comprava doveva portare con sé bottiglie, bidonerai e sacchette.

Le drogherie, poi, erano dei veri bazar dove si trovava di tutto: spezie, generi alimentari tra cui i legumi (i ceci, le lenticchie, le fave ed i fagioli, riposti in grossi sacchi aperti) e la pasta (conservata in appositi cassetti), caramelle, mandorle tostate, noci, sapone per bucato al taglio, lixiva, ferramenta (obilus, puncias e vias di ogni tipo e dimensione). Quanti buoni odori pronti a far breccia sui gusti di tutti. Chi non ricorda il profumo delle cozze crude, oggi scomparso, che si gustavano all’ingresso, con qualche goccia di limone, una pagnottina ed un bicchiere di vino bianco?

Una volta gli odori impregnavano determinate strade addirittura per quasi tutta la loro lunghezza: quello, ad esempio, proveniente dall’opificio per la torrefazione di caffè nella via XX Settembre, o quello del tabacco in viale Regina Margherita, dove fino a poco tempo ha operato la Manifattura. Oppure, durante il Carnevale, intere vie sapevano di tzipulas perché era tradizione friggerle soprattutto presso i privati ed erano di un buono eccezionale.

La memoria sui profumi scomparsi ci porta anche nelle strette vie dei quattro quartieri storici, dove, d’inverno, si accendevano is cupas, i bracieri, che sprizzavano mille scintille e che, a fuoco avviato con pazienza e l’ausilio del soffietto di paglia, venivano portati all’interno delle abitazioni, allora prive di altre fonti di riscaldamento, specie i sottani di Marina e Castello. Anche quello emanato dai bracieri era un profumo caratteristico, così come quello del bucato, sempre dei sottani: i panni venivano appesi, per asciugare, ad uno spago teso tra due bastoni inclinati dal muro verso la strada.

Era usanza quotidiana, inoltre, in queste stesse vie arrostire all’aperto i pesci o la came o portare fuori la pentola fumante, appena tolta dai fornelli, per far raffreddare la minestra prima di servirla a tavola. Spiccava il profumo della salsa in cottura, del basilico, dell’aglio, adoperato in gran misura per il soffritto. Gli aromi si spandevano per l’aria per tratti molto lunghi e finivano per mischiarsi fra loro in un piacevolissimo unico profumo che faceva venire l’acquolina in bocca a chiunque, ivi compresi i robusti gatti, sempre all’erta in questi frangenti e pronti ad intervenire con rapidità se l’occasione si fosse presentata propizia. L’attesa, peraltro, non era quasi mai vana, perché chi cucinava veniva mosso a compassione con molta facilità. Tra i cagliaritani e i gatti, infatti, vi è sempre stata piena sintonia!

Specialmente d’estate si creava, poi, in queste assolate stradine, nelle ore dedicate al pranzo, un connubio incredibile di profumi e di musiche: le radio o i grammofoni funzionavano a tutto volume ed era possibile percorrere per intero, ad esempio, la via Napoli o la via Cavour senza perdere una sola nota di una canzonetta popolare o di una celeberrima aria verdiana o di un canto in re o, ancora, di una suonata del formidabile mandolinista cagliaritano, di fama mondiale, Giuseppe Anedda, di cui tutti avevano i dischi. Oppure si poteva seguire, perfettamente e senza soluzioni di continuità, la trama comica della Scenetta dialettale che Radio Cagliari, disponendo di spazi temporali ben più ampi di quelli attuali, mandava in onda tutte le domeniche, proprio in quelle ore, per il piacere degli attenti ascoltatori che si sganasciavano dalle risate.

Quante cose ancora potrei dire, quanti ricordi di profumi lontani, del buon cibo della mamma e della nonna intente tra i fornelli della loro cucina, e se chiudo gli occhi, posso ancora assaporare quegli antichi odori che mi hanno accompagnato nel corso di tutta la mia fanciullezza.

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